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Boris Sollazzo su Drive Me Home. "Stupire e scartare rispetto al pensiero (est)etico dominante".

Aggiornamento: 4 gen 2021


Boris Sollazzo all'Ischia Film Festival.

Hai selezionato Drive Me Home per il Festival di Ischia. Che criterio hai utilizzato, cosa ti ha convinto a sceglierlo?


Il linguaggio cinematografico, innanzitutto, una grammatica che pur innestandosi in un mix di generi riconoscibili, riusciva a essere innovativo e originale, così come l’uso degli attori, i cui talenti vengono qui declinati in modo diverso dalle “solite” proposte interpretative. Ovviamente, essendo quello il festival delle location, era determinante anche la sua natura di on the road che inevitabilmente le valorizzava, soprattutto a livello narrativo. Drive me home è un oggetto cinematografico particolarissimo che viene domato dal regista in ogni sua parte, grazie al coraggio di non farsi tiranneggiare dal conformismo cinematografico attuale in nulla, dalla sceneggiatura al ritmo.


Simone Catania per la sua opera prima ha infatti scelto una via difficilissima: un road movie “emotivo”, con due attori molto famosi e importanti, in condizioni produttive complesse (budget ridotto, molti viaggi, molte location). Tutte scelte apparentemente da evitare. Quando valuti un’opera prima – tu personalmente e anche tu come selezionatore – hai un occhio speciale? Oppure ti dimentichi di tutto quando parte la storia?


All’inizio, me ne dimentico. Al di là di ostacoli e problemi, l’opera d’arte va valutata nel suo valore artistico, nella qualità che porta con sé. La produzione è una parte del film e la sua mediocrità non può essere un alibi. Detto questo ammetto che quando trovo un’opera prima di grande valore e ne intuisco i problemi che può aver vissuto sul set e non solo, quando vedo che questi stessi non hanno influito sul film, e anzi non si vedono, il mio giudizio è ancora più entusiasta.

Perché ci vuole fegato e talento per prendere tante scelte sconvenienti e uscirne comunque vincitori.

A questo punto, lo ammetto, a parità di qualità, prediligo chi ha avuto meno mezzi e ha saputo far fronte all’impresa senza l'aiuto di una produzione forte in termini di budget e risorse umane.


Simone Catania sul set di Drive Me Home

Marco e Vinicio in Drive Me Home hanno dimostrato (se ce n’era ancora bisogno) un grande talento attoriale, soprattutto nello svestire i panni consueti, nel tuffarsi in altri mondi, nel dar corpo ad altri personaggi lontanissimi dall’immagine che li ha contraddistinti e resi famosi. Che rapporto “filmico” hai tu con gli attori in generale e con gli attori italiani di oggi in particolare?

Sono uno strano tipo di critico e di direttore di festival, perché il mio centro di gravità permanente cinematografico sono gli interpreti. Un po’ per formazione, un po’ per passione (quest’arte l’ho iniziata ad amare, da piccolo, grazie a Gian Maria Volonté e Francis Ford Coppola, straordinario regista d’attori). Il mio rapporto con gli attori, quindi, è un elemento fondante, quindi, del mio modo di approcciarmi al racconto cinematografico, anche perché sempre di più sono il veicolo creativo e umano di tutte le parti più importanti di un lungometraggio, dalla scrittura alla regia, dalla fotografia ai costumi, in loro insistono le fondamenta di un film. Trovo che gli interpreti italiani delle nuove generazioni siano di altissimo livello ma ostaggio di produzioni miopi (ma lo è anche la critica, spesso, e pure il pubblico che però non di rado ci sorprende in positivo quando un attore prova a invertire la rotta, pensiamo a Stefano Accorsi o Alessandro

Borghi), ossessionate dal reiterare modelli vincenti e dall’etichettare grandi professionisti tatuando loro addosso il loro personaggio di maggior successo.


Ecco perché amo profondamente il lavoro di Vinicio Marchioni e Marco D’Amore: il Freddo e l’Immortale avrebbero potuto schiacciarli, cannibalizzarli, infine annientarli o, nel migliore dei casi, farli sedere e sfruttare la lunga onda della fama senza crescere.

Loro, invece, fin dai set di Romanzo Criminale e Gomorra, hanno lavorato per essere altro, anche rinunciando a grandi opportunità e accettando sfide complesse, come Drive Me Home. Il lavoro che vedi in entrambi in quel film, è entusiasmante. Come tutto il loro percorso.


Vinicio Marchioni, Jennifer Ulrich e Marco D'Amore

Vieni da un lunghissimo percorso, critico, accademico, autoriale, da direttore artistico. Il Cinema italiano è cambiato in molti modi in questi ultimi anni e tu hai visto praticamente tutto. Che rapporto hai, oggi, col cinema italiano? Cosa vorresti vedere che non riesci a vedere, cosa non sopporti più, cosa ancora, invece, stai amando?

Domanda difficile. Siamo ossessionati dalle etichette e spesso non ci accorgiamo, se non in momenti fortunati (quando i Sorrentino come i Mainetti vengono premiati e acclamati, e quindi pensiamo di poter individuare nuovi generi e filoni - a questo proposito per la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro abbiamo curato un libro su questo tema con Pedro Armocida), di quanta varietà ci sia nel nostro cinema. E’ cambiato in meglio il cinema italiano, penso anche ai Rovere e ai Sibilia, al tanto cinema indipendente e underground che trova un po’ di spazio. Era molto più difficile amarlo negli anni ’90, quando per un

Salvatores e un Vicari dovevi sorbirti un’uniformità estetica e di contenuti molto maggiore. Ho un rapporto ottimo col cinema italiano, meno con l'autocensura degli autori, la scarsa fantasia delle produzioni, la tirannia delle grandi distribuzioni che sopporto pochissimo, così come la tendenza del cinema italiano a reiterare modelli e format quando sono già esausti. Vorrei vedere più coraggio, come in Drive Me Home, più film per i registi (Monicelli un giorno mi disse: “noi potevamo sbagliare, facevamo un film l’anno, loro no, se hanno successo ne fanno uno ogni quattro o cinque”), una commedia più matura e dissacrante, una volontà di stupire e scartare rispetto al pensiero (est)etico dominante che vedo in questo momento più nelle serie (penso a Il miracolo di Ammaniti, ma anche a progetti come 1992 e i suoi sequel o la Linea Verticale: come è stato possibile che a un genio come Mattia Torre sia stata data una possibilità in tv e non al cinema?)


Boris Sollazzo e Benicio del Toro

Da spettatore e da direttore artistico viaggi per Festival e vedi (e selezioni) molti film che poi il pubblico italiano probabilmente non riuscirà a vedere. La moltiplicazione degli schermi, l’affievolimento del pubblico nelle sale, le finestre, le piattaforme sono argomenti che coinvolgono l’industria del cinema in questo momento, soprattutto per i film di qualità. Che idea ti sei fatto? Quale pensi sarà il futuro del cinema arthouse?

L’idea che mi sono fatto è che il luddismo non è una risposta. Roma di Cuaròn dimostra che la piattaforma in cui si va - così come accaduto a Sulla mia pelle - importa poco.

Non bisogna pensare al luogo fisico o virtuale in cui saranno proiettati i film, ma al pubblico che avranno. Il moltiplicarsi delle nicchie, se riusciremo a superare lo strozzamento a imbuto del mercato che però è a monte, nei finanziamenti e nei piani industriali, potrà solo favorire il cinema arthouse. L’importante è rendere questo mondo sostenibile per i professionisti che vi lavorano, perché fingere che il cinema sia solo arte e non anche industria è il motivo per cui abbiamo rischiato, alla fine dello scorso secolo, di veder morire il cinema italiano. I festival, a mio parere, rimangono centrali: in un mondo che ha mille piattaforme, migliaia di persone sentono ancora il bisogno di fare un

percorso fisico in un luogo anacronistico come i festival, appunto. C’è bisogno di partecipazione e non possiamo far finta che ciò non esista. Dobbiamo solo capire come muovere questo popolo che chiede solo di avere un mercato, uno spazio, un bacino di opere di qualità.



PORTAMI A CASA con Marco D'Amore e Vinicio Marchioni Prodotto da Indyca e Inthelfilm con #RaiCinema



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