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Guido Iuculano, "Butterfly" e la drammatizzazione della realtà. 

Aggiornamento: 18 set 2019

Lo sceneggiatore di Butterfly (e di tante altre cose) ci racconta com'è stato entrare nella storia di Irma Testa, lavorare con la realtà e darle una direzione filmica.

Solitamente lavori su film di finzione, o su serie televisive sempre di finzione, com'è stato per te approcciarti ad un materiale documentario, e umano, così forte già in partenza? Ci sono state delle differenze, però non così eclatanti: un racconto è sempre una finzione, anche se si presenta come racconto documentario. Inoltre devi considerare che quando scrivo una storia inventata ho sempre a disposizione un materiale di partenza: un ricordo d’infanzia, un articolo di giornale, una biografia o una storia che ho sentito da qualcuno. In questo caso, la storia me l’hanno raccontata Cassigoli e Kauffman. Era una bella storia, ampia, piena di eventi e di personaggi. C’erano una madre e una figlia, un maestro di pugilato, Torre Annunziata, le Olimpiadi di Río, la sconfitta, la rabbia e la delusione e il riscatto. Dato il materiale, si trattava di capire qual era la cosa davvero importante e qual era il modo migliore di raccontarla. Che storia era la storia di Irma? Qual era il suo significato profondo ed esemplare? Questa è esattamente la stessa domanda da cui parto quando scrivo racconti inventati. Sei entrato a metà progetto, gli autori, Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, dicono che hai dato una "svolta" al progetto, com'è stato lavorare con loro?


Loro sono sempre gentili, ma probabilmente esagerano. La verità è che avevano progettato un film molto diverso, perché erano sconsideratamente sicuri che Irma avrebbe vinto le Olimpiadi di Río. L’avevano seguita lungo le qualificazioni, e speravano di raccontare una grande storia di successo. Poi, quando Irma è stata eliminata al primo incontro, anche gli autori sono andati in crisi. Da parte mia credo di averli aiutati a elaborare il lutto: il film che volevano fare non c’era più, ma adesso avevano l’occasione di raccontare una storia diversa, più profonda, più emozionante e anche più originale. Dovevano abbandonare gran parte del materiale girato e immaginare nuove scene; iniziare dalla sconfitta di Río e dalla delusione, per raccontare poi la crisi d’identità e la ricostruzione di un futuro. Devo dire però che in questo sono stati molto veloci: erano già pronti al cambio di prospettiva, avevano bisogno solo di una piccola spinta.



Pensi esista un limite (pratico, etico) che lo scrittore non debba oltrepassare nel "drammatizzare" la realtà?

Su questo argomento si è teorizzato molto, ma alla fine direi che ci siamo attenuti a un principio molto semplice: abbiamo evitato tutto quello che rischiava di danneggiare, ferire o umiliare le persone coinvolte nel racconto. Sembra un principio esclusivamente etico, ma in realtà è anche un principio estetico. Quando un autore si attiene a questa regola si posiziona automaticamente sullo stesso piano dei suoi personaggi, e quindi si sottrae al rischio di giudicarli, semplificarli o usarli per creare un effetto, suscitare una reazione, dimostrare una tesi. Si limita a far risaltare quanto più possibile la loro verità, e questa è la natura di tutta la letteratura e di tutto il cinema che amo.


“Quando scrivo una storia inventata ho sempre a disposizione un materiale di partenza: un ricordo d’infanzia, un articolo di giornale, una biografia o una storia che ho sentito da qualcuno. In questo caso, la storia me l’hanno raccontata Cassigoli e Kauffman".

Gli autori ci dicono che devi raccontarci un "aneddoto" ma senza dirci quale, ce lo dovresti raccontare tu. ;)

Kauffman e Cassigoli si sono affezionati molto a questo aneddoto perché sono superstiziosi come tutti gli autori di cinema. È una cosa che a me fa simpatia, e la facciamo tutti. Nelle coincidenze vediamo segni di buona fortuna. Per mesi andiamo in giro e ci chiediamo: “Si farà questo film? Verrà bene? Oppure stiamo seguendo un sogno che è solo nostro?” Dopo un anno di lavoro queste domande diventano ossessioni, e loro due erano arrivati più o meno a quel punto. Per questo, credo, sono stati molto contenti quando gli ho detto che nel ristorante sotto casa avevo incontrato per caso Irma Testa, e che stavamo mangiando insieme e che li aspettavamo per il caffè. Da quel momento li ha presi una specie di entusiasmo radicale: gli dei erano propizi. Da parte mia, anch’io mi sono affezionato a questa storia ma per un motivo diverso. Il ristorante di cui parlo è in pieno centro, in una traversa di Campo de’ Fiori a Roma. Irma in quel periodo si allenava, mi pare, a Grottaferrata, o forse a Frascati. Aveva avuto un pomeriggio libero e aveva deciso di usarlo per visitare la Galleria Spada. Tu ci sei mai stato alla Galleria Spada? Io no, e ci abitavo sopra. Ecco, quel pomeriggio ho capito che Irma era soprattutto questo: una ragazza affamata di vita, di conoscenze, di mondo. Da quell’incontro è venuta l’idea di raccontare i suoi progetti di viaggio, la Patagonia, gli sciamani… Non potevamo parlare solo di pugilato e famiglia.

Che effetto ti ha fatto vedere il risultato finale del tuo lavoro su grande schermo?


In realtà ero emozionato per Irma e per il suo primo maestro, Lucio Zurlo, che erano presenti in sala. Mi sono commosso pensando a quanto si stavano commovendo loro. Magari poi loro si sono commossi pensando a quanto si commoveva qualcun altro. La commozione fa così, ti prende solo quando inizi a immaginare i sentimenti di un altro. Per questo, credo, la scena più commovente del film è quella in cui una ragazzina di nove o dieci anni dice: “Voglio essere come Irma Testa”. Perché lì ci sei tu che guardi e immagini i pensieri di Irma; poi c’è una bambina che ha scelto Irma come modello; e infine c’è Irma, che pensa a quella bambina e immagina i suoi pensieri. Siete in tre, ognuno pensa all’altro e tu per un attimo hai la sensazione di non essere solo.

Indyca ti ha pagato bene?

Tu scherzi, ma io che devo dire? La cosa importante è che gli autori mi hanno regalato cantuccini e vin santo. Li aspetto per ricambiare.


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