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La Costruzione dell'Amore.

Aggiornamento: 4 gen 2021

Il percorso artistico di Marco D'Amore: dai primi palcoscenici teatrali alle serie TV, da Ciro l'Immortale ad Agostino, fino alla sua prima regia cinematografica.

Drive Me Home. Il Wwoof. Marco d'Amore fotografato da Giulia Manelli.

Il teatro a Caserta è una bontà alla quale non si può rinunciare, come la pizza, la mozzarella. È qualcosa che ti nutre e ti ricorda chi sei. Anche perché dalle voci di Eduardo non si sfugge. Non perché ogni paesino ha la sua compagnia e il suo piccolo teatro, ma perché la salgemma della scena si rivela in ogni singola casa.

Basta far evaporare l’acqua e sul suolo resta quella verità di ogni portone che in estate odora di pomodoro messo a bollire dal mattino. Con i personaggi di Eduardo ci pranzi, ci dormi, ci vivi. Poi capisci che sono i tuoi genitori, i tuoi amici i tuoi zii, che sei tu stesso un personaggio delle sue commedie. Vita e rappresentazione si fondono continuamente in un fermento continuo, talvolta inspiegabile, che più trova ostacoli e difficoltà, più brama di esplodere e manifestarsi.


Questo Marco D’Amore lo sa, fin troppo bene.

Casertano, classe 1981, muove i primi passi dal Teatro Izzo di Caserta, che dal 1976 offre il suo palcoscenico a giovani compagnie. Sono in tanti che si sono lanciati da lì. Sono pochi i casertani a non esserci mai stati. Ogni famiglia avrà avuto un cugino, una sorella o lo zio di turno impegnato in una rappresentazione. Molti lo fanno per diletto, per passione. Ma tra questi, di tanto in tanto, prendono vita dei sogni, delle passioni catartiche e irrefrenabili che portano al professionismo e alla nascita di casi esemplari nella storia delle arti sceniche italiane. Uno di questi, era proprio quel giovane dallo sguardo profondo e magnetico, ipnotico: Marco D’Amore.


Compagnie di teatro dialettali, dall’amore defilippiano che animano culturalmente la ricchezza umana del Sud. Ed è proprio cosi che avviene l’incontro che al giovane Marco cambia la vita. Lui è un ragazzo sotto i venti anni, ancora non sa che l’arte interpretativa sarà la sua vita. Per ora è un tormento voluttuoso e in scena mette tutto se stesso. Dalla platea qualcuno nota l’intensità e la bravura, qualcuno nota questa miccia pronta ad accendersi e fiorire. Sono occhi importanti che scorgono la futura fenice, sono gli occhi di Toni Servillo, casertano anche lui, anima de Teatri Uniti di Napoli.


"Una Vita Tranquilla" di Claudio Cupellini

I due anni successivi Marco li passa in Tournéè: 150 repliche al fianco di Toni Servillo entrambi diretti da Andrea Renzi. Per capirci, sono gli anni de “L’uomo in più” di Paolo Sorrentino, dove Toni e Andrea sono davanti la macchina da presa fianco al fianco in uno dei film più stimati del regista napoletano vincitore del Premio Oscar con il successivo “La Grande Bellezza”. È l’emancipazione artistica del meridione che prende sempre più piede, che grida, che si esprime. Ogni casertano o napoletano ha nel cuore la sua casa, la sua terra, segnata dall'orgoglio e dai dolori, sacrifici e disagi di una Regione bellissima ma disgraziata.

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Per il giovane Marco D’Amore, Toni Servillo diventa un padre artistico, con il quale mette in atto l’osmosi della conoscenza attoriale.

E così, mentre calpesta più di 150 palcoscenici per Pinocchio, prepara il provino alla Scuola Paolo Grassi di Milano. Inutile ribadirne l’esito. La città lombarda dà la possibilità a Marco di incontrare l’Europa, un mondo diverso che lo arricchisce ma che non lo snatura. Lui ha radici forti, un fogliame che si addentra nel suolo, importante quanto quello verde che brilla al sole.



Lui lo sa bene, come tutti noi del Sud. Essere meridionale è una cosa che resta. Puoi girare il mondo, viaggiare ovunque. E Marco, dopo più diciotto anni di attività tra palcoscenico e set, è fiero di essere un uomo del Sud. Non è mai andato via da Caserta. Non saprebbe dove altro vivere, perché, come più volte ha detto in varie interviste, la città dalla dimensione provinciale gli restituisce protezione e libertà, un sentimento di normalità di cui non riesce a fare a meno. Lì a qualche centinaia di chilometri da Roma, dove è spesso per lavoro, c’è la sua casa: Caserta. Ci sono i suoi odori d’infanzia, ci sono le vibrazioni dell’essere che lo rendono vivo.


Per pagarsi la vita da fuori sede, durante gli studi milanesi, lavora in qualsiasi campo: fa il cameriere, il baby sitter, il dog sitter, il lavapiatti, finanche clownerie in strada. Tutte le esperienze gli rendono sempre più limpida la verità sacrificale annidata nei gineprai di un mestiere che senza coraggio non si può scegliere: quello dell’attore

E Marco non si tira indietro. Arrivano altri spettacoli, la televisione e i primi film, tra cui “Una Vita Tranquilla” di Claudio Cupellini, dove si rende scenicamente figlio del suo padre artistico di sempre: Toni.


Il resto della sua carriera la conosciamo tutti. L’abbiamo visto tutti in Gomorra con la sua sublime performance di Ciro l’Immortale. La serie di SKY lo lancia nel mondo e lo celebra, dandogli la possibilità di ampliare le sue collaborazioni.


Ed ecco che nel 2017, un regista alla sua opera prima gli propone quello che stesso Marco definirà poi come “uno dei viaggi più belli e pericolosi della sua vita artistica”.

Il film è un road movie: si chiama DRIVE ME HOME.

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L’avventura comincia a bordo di un Tir. Marco si cala nei panni di un siciliano scappato all’estero come tanti altri italiani in cerca di lavoro. Finisce per fare l’autotrasportatore. Quello che era il suo CIAO della Piaggio, con il quale solcava su due ruote le campagne di Blufi, da Volcano si Trasforma in Vulkaan, un autoarticolato a bordo del quale si inerpica nelle grigie zone di confine, geografiche e umane



È qui, in queste lande dove l’oscuro vive parallelamente alla vita chiara e trasparente della società moderna che Marco D’Amore recita per la prima volta insieme ad un’altra icona della serialità italiana: Vinicio Marchioni.


Lui, vero romano, viene ancora fermato da tanti per strada bramosi di congelare un attimo della loro vita insieme al “Freddo” di Romanzo Criminale. Un passato artisticamente criminale che accomuna due vite diverse ma legate dall’essenza che affiora dalla loro pelle: il sacrificio dedito all’arte rappresentativa. E così si ritrovano insieme in una cabina di un Camion ad essere Toni e Tino, in un viaggio sulle strade d’Europa, alla ricerca di un posto chiamato e da chiamare casa.



Nel film il personaggio di Marco rinnega le sue origini e non può tornare a casa. Ma l’attore che lo veste, dalla sua casa non è mai andato via. Probabilmente Marco non rinuncerà mai a quel magico e affabile inferno di Caserta e Napoli. Dentro di sé prova orgoglio e tenerezza per la sua terra, ma anche tanta rabbia. Perché ancora oggi, nonostante l’immenso patrimonio culturale, artistico e geografico quale è la Campania, tra la sua gente vince l’incuria. Il senso di abbandono gli duole, ma è proprio per questo che non vuole andare via. Perché crede che abbandonare la propria casa al vento ed alla sabbia sia solo un modo di peggiorare le cose. Rimanere invece significa contrastare la direzione del tempo, invertirla, forzarla e storcerla nel verso del riscatto: perché solo restare e vivere può scrivere un futuro diverso, bagnato dal rigoglio della rugiada della nuova alba dell’emancipazione.


Marco con Simone Catania (a dx) il regista di Drive Me Home

Marco è stato più volte regista teatrale. A Natale uscirà la sua prima regia cinematografica “L’Immortale”, lo spin off di Gomorra sul suo personaggio. Per Marco si è aperta una nuova strada. Una di quelle mille viste anche dalla cabina di un Tir nel ventre d’Europa, una nuova strada che si avviluppa lungo il segno della propria casa, senza la quale è inevitabile l’ascesa della regina dell’antipode della vita: “L’Appocundria”.


Lui sa cosa significa.



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