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Paolo Ferrari Cinematographer. L'emozione sotterranea e la memoria biologica in "Drive Me Home".

Aggiornamento: 4 gen 2021


Paolo Ferrari

Sei un direttore della fotografia di immensa esperienza, e hai un rapporto di amicizia sia con i produttori Marco Simon Puccioni e Giampietro Preziosa, sia con Simone Catania (produttore e regista del film). Quanto conta il rapporto personale in avventure produttive “estreme” e “on the road” come Drive Me Home ?


Con Marco Simon Puccioni abbiamo realizzato nel 1999 Quello che cerchi, il primo film con tecniche di ripresa digitali. In quell’epoca da pionieri una vera scommessa tecnologica e di linguaggio. Con Simone Catania ci siamo conosciuti con Onde Corte un cortometraggio prodotto da Maria Grazia Cucinotta. Uno dei suoi primi lavori come regista, tra l’altro girato in pellicola 35mm nella sua assolata Sicilia. Simone è divenuto poi anche un grande produttore di cinema del reale (“documentario” come si diceva un tempo). Con lui ho vissuto due bellissime esperienze di vita: Smokings di Michele Fornasero e Happy Winter di Giovanni Totaro. Due film della realtà dove la finzione si mescola e si confonde nelle storie dei protagonisti reali. Questa attenzione alla realtà è il comune denominatore che lega film così distanti nel tempo. Quello che cerchi e Drive Me Home rappresentano nel mio percorso di cinematographer due momenti importanti di riflessione sul linguaggio della luce. Sia Marco S. Puccioni che Simone Catania mi hanno lasciato un grande spazio nella progettazione visiva del racconto. Mi hanno permesso di avere una voce dentro la fase di scrittura. Questa fiducia reciproca e l’affetto che ci lega ci ha regalato una grande libertà espressiva e una complicità aderente a ciascun progetto.


Paolo Ferrari e Vinicio Marchioni sul set

Il film ha momenti di forte luminosità e momenti bui, sia dal punto di vista emotivo che fotografico, e avete girato moltissimo di notte, come hai pensato il taglio della luce, la pasta del film, come ti sei preparato a questo lavoro? Che macchine e che ottiche avete usato?


Quando Simone ed io abbiamo iniziato ad immaginare il film, abbiamo subito scelto la strada del Cinema della Realtà. Eravamo convinti che questo era un film da girare con camera a mano. Non solo come stile ma anche forma di libertà. Non volevamo entrare nello schema campo controcampo e totale. Il nostro desiderio era quello di far camminare gli attori sulla strada della loro stessa storia. Volevamo che fossero liberi di muoversi sul set senza schemi precostituiti, senza limiti di movimento o costrizioni tecniche di ripresa o di luce. La macchina da presa doveva pedinare la loro libertà, seguire gli attori come se fossero personaggi di un documentario. L’Operatore avrebbe potuto sorprendersi per quello che accadeva: iniziata la scena tutto poteva succedere, come davanti ad un momento reale di un documentario. Su queste priorità della rappresentazione ho iniziato a costruire tutto l’apparato tecnologico che avrebbe potuto permetterci questa libertà. Per prima cosa abbiamo testato varie macchine da presa e diverse serie di obiettivi. La C300 MARK II si è rivelata essere la cinepresa digitale che corrispondeva alle nostre esigenze di libertà e semplicità tecnologica. In particolare il set up di registrazione ci permetteva di girare in 2k con 12 bit di profondità colore : una caratteristica importante per poi lavorare in post-produzione con più sfumature colore possibili. Inoltre La Canon ci permetteva di girare a 5000 ISO senza grana , offrendomi la libertà di catturare la luce naturale con grande semplicità ed efficacia. Tutte queste caratteristiche tecniche erano nella direzione che volevamo imprimere al film : un Immagine Reale.

Abbiamo quindi deciso che avremmo girato sistematicamente con due C300 MARK II , entrambe accessoriate per la camera a mano. Oltre a me ci sarebbe quindi stato un secondo operatore, Nunzio Gringeri, un mio ex allievo del CSC di Palermo che già era stato con noi su Happy Winter.



Ora restava da decidere il Parco Luci. C’erano diversi limiti che volevo imporre al film. Non volevo il gruppo elettrogeno, i cavi elettrici, non volevo apparati illuminanti pesanti da collocare. Il film necessitava di una profonda semplicità tecnica. Stavo cercando di essere libero di spostare le luci anche all’ultimo momento prima del ciak, magari seguendo la luce naturale del giorno o quella diegetica della notte. Nell’esperienza di Quello che cerchi con Marco S. Puccioni avevo costruito nuove luci per il cinema. All’epoca mi ero ispirato ad una idea di Renato Tafuri in Oggetti Smarriti di Giuseppe Bertolucci e ho costruito con il mio capo elettricista Fabio dell’Orco (lo stesso di Drive Me Home) le luci per le scene notturne, comprando le lampade stradali ai vapori di sodio in modo che la luce dei lampioni nella notte fosse bilanciata con le luci fuori scena. Anche in quel caso l’effetto era di estremo realismo della luce. In Drive Me Home ho alzato il rischio. Da diversi anni avevo utilizzato le LUCI al LED molto performanti e di facile allestimento. Con l’aiuto di Giampietro Preziosa abbiamo fatto un accordo produttivo con la LUPOLIGTH di Torino, in modo che tutte le tipologie di luce al LED del loro catalogo divenissero il nostro parco luci. Tutte le luci che avremmo utilizzato sarebbero state a batteria, con un consumo assolutamente ecosostenibile. Tutto questo lungo lavoro di preparazione era già di per sé una scelta fotografica molto precisa.

Luce e ombra , realtà e finzione , documento e rappresentazione, tutti elementi paradigmatici di Drive Me Home. Tutti elementi che concorrono a creare quelle emozioni sotterranee alle scene, che si imprimono in modo subliminale nella memoria biologica dello spettatore.


Ecco un esempio concreto che ben descrive la parte solare del film. In Belgio abbiamo girato nel vero posto ristoro dei camionisti in sosta. Quella scena era molto importante da un punto di vista emotivo. Era il primo risveglio dei protagonisti dopo il loro incontro avvenuto la sera prima. Da sempre me l’ero immaginata con la luce del mattino presto quando il sole è appena sorto e accarezza dolcemente il volto. Abbiamo deciso di girare nel posto ristoro quella stessa mattina come si farebbe in un documentario. Siamo entrati e abbiamo cominciato a preparare la scena al bancone. Erano già le 11, la scena doveva essere al mattino presto, quindi era per me necessario aggiungere la luce calda del sole del mattino. Dovevamo muoverci con discrezione e rispetto: tutte le persone che lo popolavano a quell’ora non erano comparse. Le luci al LED a batteria e senza cavi elettrici potevano essere montate e direzionate con molta semplicità e senza inquinare la reale atmosfera del posto ristoro . Un'atmosfera che percepiamo fortemente anche nella scena montata del film. Ecco cosa significa rispettare la realtà.


Drive Me Home è fatto anche di buio, di notte, di ombra. Durante i sopralluoghi in trentino nella campagna che circonda la casa rurale dei wwoofers abbiamo cercato dove girare la passeggiata nella notte con Vinicio Marchioni e Jennifer Ulrich. Da sceneggiatura sapevamo che avrebbe dovuto essere un piano sequenza dove i due attori camminavano nel buio profondo della notte. Tutti noi almeno una volta nella vita abbiamo camminato in un luogo notturno dove l’unica luce era quella della luna. Al cinema il buio è da sempre una convenzione: siamo al buio ma ci si vede. Nella realtà gli occhi si adattano al buio e possono percepire i contorni degli alberi, del cielo, dei volti.


Nel luogo in alta montagna che avevamo scelto non c’erano luci stradali di riferimento su cui poter verosimilmente costruire una luce aggiuntiva credibile. Quella notte ho cominciato a spargere luci al LED molto diffuse che illuminassero delicatamente intorno ai nostri personaggi e soprattutto sugli sfondi, cercando di costruire un atmosfera credibile di luce della luna. Man mano che aggiungevo le luci, mi sono subito reso conto che si stava creando una situazione falsa. Non avrebbe avuto senso nemmeno se avessimo noleggiato i palloni luminosi che danno una luce diffusa dall’alto su tutta l’area interessata. Quindi ho iniziato a spegnere una luce dopo l’altra, fino a che non le ho eliminate tutte. Era una notte di plenilunio la luce della luna era talmente forte da farmi socchiudere gli occhi mentre la guardavo. Sono andato alla macchina da presa e ho alzato gli ISO della sensibilità fino a 5000. Improvvisamente nel monitor vidi illuminarsi il paesaggio dal buio più profondo. Ho chiesto all’elettricista di preparare un polistirolo 2 metri per uno illuminato con un MINI LED che stava in una mano. Eravamo pronti a girare

il piano sequenza : il polistirolo illuminato da una luce fredda seguiva gli attori, rischiarando i loro volti mentre camminavano nel buio. Nella scena su grande schermo la luce della luna sembra quasi falsa da quanto è vera: disegna il volto degli attori con una forza inaspettata, sorprendente e magica.



Un film fatto di luci e bui (fisici ed emotivi) e magia, nel quale Marco D’Amore e Vinicio Marchioni hanno dato davvero tutto, si sono concessi con grande generosità. Tu che sei stato il primo a “guardarli” che rapporto hai avuto con loro, e che rapporto hai normalmente con gli attori?


Nel cinema del reale i protagonisti sono persone vere, con una loro vita , una loro sensibilità, con il loro modo di vedere il mondo. Come cinematographer devi saper rispettare questa verità. Non puoi con la macchina da presa solo spiare di nascosto ciò che avviene. Devi amarli ed essere curioso di scoprire la loro umanità. Con Marco d’Amore e Vinicio Marchioni è capitata la stessa cosa che mi succede in un documentario. Non li percepivo come attori. Del resto l’amicizia fra di loro si costruiva davanti ai nostri occhi sul set e fuori dal set. Sono stati e sono come dei fratelli per me.

Tutto il magico periodo delle riprese abbiamo realmente vissuto insieme giorno e notte, dentro un viaggio fisico ed emotivo molto reale e coinvolgente. Robert Bresson ha scritto: “Un attore si trova nel cinematografo come in un paese straniero. Non ne parla la lingua.” Ebbene qui Marco d’Amore e Vinicio Marchioni si sono spogliati del loro ruolo di attori per divenire persone, “modelli” bressoniani emozionanti. Pieni di umanità.

Invece che rapporto hai con la parola scritta? Quando leggi una sceneggiatura cominci già a visualizzare il film, le atmosfere, inizia già a “girarlo”? Intervieni quando c'è qualcosa che secondo te andrebbe cambiato dal punto di vista narrativo?


La sceneggiatura è una delle mie “magnifiche ossessioni”. Dal momento che la leggo per la prima volta mi immagino già molte cose. Dovremmo veramente tutti imparare a vedere il proprio film scorrere nella testa come in un proiettore , una scena dopo l’altra. E’ molto difficile, e richiede un lungo lavoro di preparazione. In DRIVE ME HOME questo lavoro è stato fatto nel coso di più di un anno , con frequenti sopralluoghi. Quando si è scelto il luogo in cui quella scena avverrà posso cominciare ad immaginarmela realmente. Comunque non sarà mai come te la sei immaginata. Sul SET tutto di nuovo cambierà per lasciare spazio alle emozioni. Solo quando tutti gli elementi che hai messo insieme nel corso della preparazione sono davanti a te, solo allora puoi sapere come girerai concretamente quella scena. L’alchimia e il dialogo fra tutti questi elementi daranno vita ad una nuova forma spesso inaspettata. “La finestra aperta” sul SET di cui parla Bernardo Bertolucci dobbiamo sempre averla. Con Simone Catania abbiamo passato serate a parlare delle varie scene e a immaginarne di nuove. Amo lavorare così a stretto contatto con la scrittura del film. Non sono uno scrittore ne lo voglio essere. Il mio approccio nella scrittura è sempre e solo visivo. L’armonia della rappresentazione passa anche dall’immagine che abbiamo costruito nella scrittura. L’immaginario è la mia vera ossessione


DRIVE ME HOME - PORTAMI A CASA con Marco D'Amore e Vinicio Marchioni Prodotto da Indyca e Inthelfilm con #RaiCinema

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